Lessico della Pandemia – Ferita

Giuseppe D’Acunto ha curato per la collana Lessico pandemico, edita da Asterios, la voce “Ferita”. Il volume – esile e densissimo – è del tutto privo di riferimenti espliciti al tempo che stiamo vivendo. I due termini (Ferita – Pandemia) rimangono divisi da uno iato entro il quale il lettore è chiamato a collocarsi. Non si tratta di riaccostare questi due lembi per suturarli, ma di provare ad abitare la distanza che li separa.

Pensare la pandemia attraverso la nozione e l’immagine della ferita significherà in primo luogo intenderla come l’interruzione della continuità di ciò che ci è più proprio. La ferita – la pandemia, come discontinuità dell’autós.

Ferita
Lucio Fontana, Concetto spaziale, Attesa, 1960

Ogni interruzione del proprio è sempre anche un’apertura attraverso la quale scorgere l’altro. La ferita, diceva Aldo Carotenuto a cui D’Acunto qui si rifà, è una feritoia, uno spiraglio, attraverso il quale possiamo guardare la nostra interiorità e, mediante questa, entrare in contatto con l’interiorità altrui. La ferita è un occhio “che guarda verso dentro e verso fuori”. È la condizione a partire dalla quale diventa possibile guardare, guardarsi, lasciarsi guardare. E guardare, lo sappiamo, non è vedere. L’occhio che vede considera l’altro nell’ottica dell’appropriazione, si approssima all’altro per cancellarne l’alterità, per farlo proprio. L’occhio che guarda è una ferita esposta all’altro, aperta alla meraviglia dell’inaspettato.

“[La nostra ferita può] trasformarsi in feritoia, ossia può diventare la matrice del nostro relazionarci con il mondo […] l’aculeo dell’interesse e della curiosità verso la vita”.

A. Carotenuto, Vivere la distanza, Bompiani, 1998 p. 166

Questa dolente apertura all’altro, questa possibilità della contaminazione, è anche l’origine di ogni creatività.

“Se il destino non ci ferisse […] non potremmo diventare ciò che realmente siamo”

A. Carotenuto, I sotterranei dell’anima, Bompiani 1993, p. 153

Al di là di ogni eziologia psicologica della ferita, D’Acunto si pone sulle tracce di una sua dimensione ontologica. Secondo la filosofa Maria Zambrano, il taglio del cordone ombelicale, segnando la separazione dal corpo della madre, lascia in noi una ferita che non è destinata a rimarginarsi. In una certa misura noi siamo questa ferita. Essa è ciò a partire da cui ci costituiamo come individui. Differenziandoci dall’unità orginaria mediante un taglio, avvertiamo il nostro essere come una mancanza da colmare. Ogni creazione umana, compresa la creazione di sé, scaturisce da questa originaria ferita.

“[Una ferita aperta è ciò che] ogni uomo, in quanto tale, ha in sé fin dalla nascita, anche se di solito cerca di occultarla o di tenerla chiusa ad ogni costo. […] Ogni creazione dell’uomo germoglia da quella ferita”.

M. Zambrano, Per abitare l’esilio. Scritti italiani, Le lettere, 2006 pp. 167-168.

Se così stanno le cose la continuità dell’autós è già da sempre interrotta e la pretesa di essere immuni da ogni contaminazione, di scongiurare, nascondere o guarire la ferita, si configura come una paradossale rinuncia a diventare se stessi.

Con gli occhi dell’artista

Occorrerebbe imparare a guardare con gli occhi dell’artista. Ecco un buon esercizio di trasformazione di sé e del mondo.

In una recente conferenza a margine della mostra d’arte contemporanea E luce fu, il filosofo Silvano Petrosino ha sostenuto che la peculiarità dell’artista è la capacità di guardare. Ne siamo capaci tutti in realtà, ma spesso ce ne dimentichiamo. Ci limitiamo a vedere, ma non guardiamo. Siamo affetti da una certa debolezza dello sguardo, da una sorta di cecità che dipende solo da noi. In esergo alla sua Piccola metafisica della luce Petrosino cita Saramago:

“Se vuoi essere cieco, lo sarai”.

J. Saramago, Cecità, Einaudi, Torino 1996, p. 124.

Ma che differenza c’è tra vedere e guardare? E qual è la facoltà dell’artista che dovremmo esercitare? Quando vediamo senza guardare, le cose sono presenti nel nostro campo visivo in una sorta di indifferenza. Esse si limitano ad apparire. Le vediamo, ma non ne cogliamo la specificità, l’unicità. Alla modalità del vedere si accompagna un certo modo di considerare la cosa come oggetto d’uso. Si tratta di una modalità del tutto naturale, indispensabile. Ma siamo capaci anche di un altro sguardo. Guardare significa in primo luogo prendersi cura della cosa che si guarda, considerarla non più in funzione della sua capacità di soddisfare il nostro bisogno, ma per quello che è.

“Da cosa si distingue l’artista dall’uomo comune? – E poi ognuno di noi è anche artista – Esattamente dal fatto che l’artista si prende cura, si sofferma, su quello che invece nella nostra vita quotidiana è semplicemente un oggetto”.

Mercoledì dell’arte contemporanea con Silvano Petrosino e Vanna Pescatori, Fondazione CrC

guardare le cose con gli occhi dell'artista
P. Cézanne, Natura morta con mele, olio su tela

Petrosino porta un esempio semplice ma significativo. Le mele che vediamo al mercato e che scegliamo per fare una torta le valutiamo sulla base del loro essere per noi buone, sane ecc… L’artista – poniamo ad esempio Cezanne – è in grado di sospendere questa modalità di rapportarsi alla cosa e la guarda in un modo nuovo, che la lascia essere quello che essa è in sé. Ciò che lo sguardo dell’artista guarda e che la sua opera conserva non è una mela tra le altre, ma questa mela. Nella prospettiva di Petrosino, dunque, la specificità dell’arte non risiede tanto nel rendere visibile l’universale nel particolare, ma nel far risplendere il particolare, lasciando che esso si stacchi dallo sfondo indistinto a cui il cieco vedere quotidiano lo lascia ancorato. Se il vedere fa apparire la cosa, il guardare la lascia risplendere, lascia che essa sia se stessa. Petrosino nomina qui un movimento che è al contempo un andare verso la cosa e un indietreggiare. Opera, tra le pieghe di questo discorso, una certa logica dell’ospitalità sulla quale dovremo tornare.

Lo sguardo dell’artista si prende cura della cosa lasciandola essere quello che è. L’essere se stessa della cosa è il suo splendore. Nel quadro di un’estetica dell’esistenza dovremmo chiederci: cosa succederebbe se oltre a imparare a vedere il mondo e gli altri con gli occhi dell’artista riuscissimo anche a piegare quello sguardo su noi stessi, sulla nostra stessa vita? Essa uscirebbe dalla dimensione anonima e ripetitiva di quella quotidianità standardizzata in cui a volte si perde e la vedremmo risplendere della sua unicità. Smetterebbe di essere una vita e si rivelerebbe come questa vita.

Guardare se stessi con gli occhi dell’artista significherà allora aver cura di sé, lasciarsi essere ciò che si è, accogliersi.